Vangelo di riferimento: Mt 2,13-15.19-23

Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».

Basta una lettura veloce alle prime pagine del vangelo per comprendere come il cammino di Dio sulla terra non sia facile. Soprattutto colpisce come l’uomo da solo non sarebbe riuscito a portare avanti una missione così grande. Ha bisogno di angeli, sogni, segni, aiuti che vengono dal cielo. Solo così si può realizzare la storia di Dio che si incarna nella mia storia personale. Eppure Dio vuole il mio contributo, non vuole fare tutto da solo e in questa situazione di fatica, di difficoltà il mio sì diventa potenza di Dio, realizzazione della sua promessa.

Giuseppe viene avvertito in sogno, mentre dormiva quindi; gli viene detto di alzarsi, di prendere con sé Maria e il bambino, di fuggire e poi di aspettare. Tutti verbi dinamici, tranne l’ultimo. Il piano di Dio ha bisogno di movimento ma anche di soste e di attese, e queste risultano pesanti a tutti: nessuno in un ufficio pubblico è contento di avere il numero 134 quando stanno servendo il numero 27… Certamente Giuseppe non è stato con le mani in mano, aveva una famiglia a cui provvedere, eppure è restato là, in Egitto, fin quando Dio non gli ha dato indicazioni diverse.

Giuseppe ha adempiuto ciò che l’angelo gli ha detto, non come un robot: si alza e agisce. Alcune volte per rispondere di si al Signore non c’è bisogno di parole, perché è il linguaggio non verbale a dare la risposta. Giuseppe non si gira dall’altra parte, (magari era anche domenica e poteva dormire un po’ di più). Si alza, realizza l’incarnazione della Parola, c’è con tutto se stesso.

Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele.

Ci risiamo, l’angelo emette il biglietto di ritorno. Stesse azioni, stesso percorso (a parte un cambiamento che vedremo) ma Giuseppe non è lo stesso dell’andata, non solo perché è passato del tempo (più o meno 2-3 anni circa), non solo perché l’ombra di Erode è svanita: Giuseppe realizzando l’incarnazione della Parola e compiendo in sé il progetto di Dio, acquista una fisionomia più bella, è più vicino al Signore, perché si è fidato, e la fiducia ben vissuta e corrisposta rende l’uomo più uomo, rinvigorisce l’animo, ‘fa star bene’.

Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret.

Anche il viaggio di ritorno non sarà stato privo di preoccupazioni: dove andremo? Come farò? Ci accoglieranno? Il vangelo non ci dice nulla, ma presenta ancora una volta la bellissima icona di Giuseppe, uomo dell’ascolto e dell’obbedienza, che si affida a Dio. Questo non è un affidarsi rassegnato e apatico; Giuseppe non dice: “Gesù pensaci tu”, ma mette in atto tutte le indicazioni date dall’angelo più una: la sua adesione fattiva, il suo muoversi.

La paura. È un sentimento di ogni essere vivente: uomini e animali vivono la paura di soffrire, di essere attaccati, di morire. La paura è quel colore indefinito che tratteggia le nostre vite, che ci fa sobbalzare e ci lascia sempre una parola tra le labbra: “menomale”.

Dopo essere fuggito in Egitto, Giuseppe viene invitato a fermarsi e ad attendere; al ritorno, viene invitato a cambiare strada e a ritirarsi, ci dice il vangelo: mi ritiro per tutelare me stesso e gli altri. Nel nostro modo (errato) di pensare, fermarsi e ritirarsi assumono una valenza negativa, così abituati a dover vincere sempre, a prevalere, a fare vedere quanto siamo bravi. Giuseppe sa alzarsi e fuggire, sa fermarsi, sa ritirarsi, vivendo ogni situazione con la totale disponibilità verso Dio e verso la propria famiglia che prende con sé (leggendo i vangeli dell’infanzia, potremo vedere diversi matrimoni di Giuseppe e Maria, sigillati sempre dalla loro fiducia in Dio e dal loro amore reciproco).

Giuseppe, pur incarnando la volontà di Dio e muovendosi fedelmente secondo le indicazioni dell’angelo, ha paura. È questo l’ingrediente proprio mio quando faccio la torta con Dio: Lui mette i suoi ingredienti, io metto i miei. Realizzazione, compimento, orizzonti impensabili, situazioni estreme, segni, accompagnamento sono tutti nel tavolo di Dio. Io porto i miei: paure, ansie, ginocchia sbucciate, lacrimoni, ma anche pace, gioia, speranza, fiducia. Sai qual è la bella notizia? Che Dio non butta nulla! Anche la paura di Giuseppe viene utilizzata, è una paura fondata, e infatti viene confermata dall’angelo: la nostra paura, se ben gestita, ci salva dai facili entusiasmi e dalla fretta.

Una famiglia che scappa? Certo, ma non solo: una famiglia che impara l’arte dell’incarnazione, vivendo ogni situazione attraverso il cuore di Dio nelle fibre della propria carne, giorno dopo giorno .