Chi si umilia sarà esaltato (Lc 18,9-14)

Quanto è faticoso riconoscere di avere sbagliato e di conseguenza chiedere perdono! E’ forse una delle fatiche più grandi. Già dai banchi di scuola ci giustifichiamo: “non avevo capito la domanda, nel libro non c’era, ma io ho studiato” ecc. Nei quiz televisivi dopo una risposta errata nascono questi fiori: “Ma sì, certo! Ma certo che lo sapevo! Mi sono confuso” e avanti di questo passo. Nelle relazioni, sono sempre gli altri a sbagliare, a non rispettarci,  ad approfittare della nostra bontà e sensibilità. E quando non possiamo dire altro: “beh, non l’ho fatto apposta!”

Abbiamo paura, noi esseri umani, che riconoscere il proprio errore sia un disonore, come se ciò togliesse lustro alla nostra vita, facesse vedere troppe magagne, e quindi ci screditasse agli occhi altrui; se solo capissimo, ma sul serio, che siamo tutti passibili di miserie e mancanze, di lacune ed errori, la nostra vita e le nostre relazioni sarebbero “più umane”, più serene ed equilibrate, senza impegnare tutte le nostre energie a farci vedere intonsi e candidi come agnelli appena nati.

Se hai letto il vangelo (leggilo, dai) avrai notato due uomini che in modo diametralmente opposto si rivolgono a Dio. Uno ostentando tutta la sua gloria, l’altro riconoscendo i propri limiti e chiedendo pietà dei propri peccati. E il riscatto di tutta una vita non avviene facendo un teatrino dei propri meriti, dicendo al mondo quanto siamo santi e irreprensibili, ma accogliendo quella parte di noi stessi che più ci ripugna, accoglierla come una ferita di cui prendersi cura, da lenire con l’olio della comprensione, da fasciare con l’amore di Dio che mai si esaurisce, e la cicatrice sarà una luminosa traccia che lasceremo nelle vite degli altri. Sì, perchè se sai riconoscere il tuo errore, se ti accogli per quello che sei, se accogli l’amore di Dio per te, la tua vita diventerà medicina e consolazione per gli altri, che trarranno beneficio dal tuo duro cammino.