Vangelo di riferimento: Lc 18,9-14

Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.

Due uomini salirono al tempio. C’è un percorso che accomuna due uomini: il muoversi, lo spostarsi dice sempre un desiderio, un’esigenza, e questi due uomini sentono il bisogno di pregare, di intrattenersi con Dio. Trovare la propria origine è sempre stato il desiderio principale dell’essere umano, e il grande sant’Agostino lo afferma con quelle meravigliose parole: “l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e ti invochi credendoti” (S. Agostino, Le Confessioni, 1,1.5). Le situazioni possono essere diverse, le persone sono sempre uniche e irripetibili, tuttavia il percorso rimane il medesimo: salire al tempio, incontrare Dio, ritrovare se stessi in Dio e Dio dentro di sé.

Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini.

Si sente giusto, perfetto, santo. Ha camminato verso il tempio per pregare, ma non comunica, “pregava tra sé”. Pur essendo una preghiera di ringraziamento, il fariseo sta ringraziando se stesso, la sua bravura, Quest’uomo è schiavo della regola e del precetto, ha consegnato se stesso al “devi” perdendo di vista il “sii”, e lui stesso lo afferma: “non sono come…”, non è. Eppure, sale al tempio, si rivolge a Dio, lo ringrazia, ma poi rimane travolto da se stesso e dal suo io abnorme. Tutta la sua attenzione è posta nel non mischiarsi con gli altri e nel sentirsi impeccabile, perfetto, santo. Il percorso è giusto, il destinatario è corretto, l’atteggiamento di chi ringrazia è lodevole, ma questa preghiera non eleva e non si eleva. Sta in piedi, certo, ma non raggiunge Dio, e neppure se stesso.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Il viaggio del pubblicano, pur avendo camminato col fariseo, è più breve di qualche passo: si ferma il pubblicano, a distanza, con la testa bassa (sa di averla combinata grossa, si conosce bene e ne prova vergogna), si percuote il petto, (tipico gesto di pentimento), e poi dice, comunica, eleva, parla. In fondo al tempio, nella penombra di una vita non luminosa, il pubblicano si incontra con se stesso, senza applicare sconti e bonus, non fa finta che va tutto bene, no: gli occhi bassi guardano dentro se stesso, si batte il petto per risvegliare la propria dignità di essere umano, la bellezza di essere creatura, si riscopre figlio di Re, servo del Signore e suo intimo amico.

Ciò che il peccato e il proprio limite ha addormentato, ora viene destato e risollevato, affinché, dopo l’incontro con se stesso, possa incontrare Dio. La sua preghiera inizia come quella del fariseo: “O Dio…”; hanno camminato insieme, salito insieme verso il tempio, hanno iniziato a pregare insieme, ma ecco che ora il pubblicano cambia bruscamente direzione: “O Dio, sii benevolo con me, peccatore”, abbi misericordia, perdonami, desidero tornare allo splendore della tua verità, e pur nel buio della mia vita desidero la tua luce, la tua vita. Mentre il fariseo nega se stesso (io non sono), il pubblicano si definisce senza mezzi termini: peccatore, e da Dio invoca comprensione e benevolenza. Questo pover’uomo ha incontrato il vero se stesso, mentre il fariseo è tutto compiaciuto della sua bella copertina, che copre il nulla della sua esistenza.

Il pubblicano è in realtà un grande maestro di preghiera: ci insegna che la relazione con Dio viene edificata partendo dalla verità di se stessi, quale essa sia, e da quella bassezza elevare voce e cuore verso Dio, attendere la sua salvezza, la sua benevolenza. In quel luogo di penombra Dio si avvicina per incontrarti, per guardarti negli occhi, per sorriderti amabilmente, per asciugare tutte le tue lacrime: Lui può farlo e lo fa: “Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo”. (Salmo 113,7-8).

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato.

Il fariseo è tornato nella sua casa, una casa di mattoni, foderata di specchi, una casa che contiene solo il suo corpo; la sua non-preghiera è stata perfettamente inutile, non lo ha cambiato, non lo ha fatto incontrare con Dio, non ha trovato comprensione e benevolenza, semplicemente perché non l’ha richiesta, e quindi non la desidera. Il pubblicano invece, ci sorprende ancora: lui torna a casa sua, riprende in mano la sua vita, abitandola non più nel buio della vergogna, ma nella luce di Dio. Ha incontrato se stesso e Dio. Ora può tornare a casa, tornare in vita, finalmente! Il suo cammino doloroso non è stato vano, come una gestazione pesante e faticosa dona alla luce la potenza della vita, come la fredda pietra rotolata via permette al Risorto di lasciare il sepolcro, l’incontro onesto con il Signore permette a quest’uomo una vita nuova, rendendolo santo, non solo di facciata come il fariseo, ma nell’intimo. Il pubblicano vive il tempio nel suo cuore, ora divenuto nuovamente dimora di Dio, casa della Presenza, luogo dell’incontro, santuario dell’amore.

Un cammino, una preghiera, una vita da abitare, e Dio che, se vuoi, si fa trovare, si fa abbracciare. Hai finalmente trovato benevolenza.