Pagina di Vangelo: Lc 2,22-40

Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore

Questo è un adempimento normale per ogni ebreo che sottostà alla legge data da Mosè: presentare il proprio figlio a Dio significa riconoscerlo e accoglierlo come dono, non come possesso. Nel caso di Gesù la situazione è un unicum: quel bimbo è il Figlio di Dio e Dio Lui stesso. Maria e Giuseppe presentano Dio a Dio, e il portare non è solo spostare un bambino da un luogo all’altro: nel testo originale e tradotto letteralmente significa “mettere accanto”: la coppia di Nazaret, portando Gesù al tempio, intende guardare il dono di Dio insieme a Dio, nella piena luce del dono.

Spesso separiamo il dono dal donatore, assolutizzando uno e dimenticando l’altro, non capendo che il dono ha valore solo perché proveniente dalle mani e dal cuore del donatore. Maria e Giuseppe vivono ogni evento riguardante la vita di quel Figlio alla luce di Dio, e mai hanno perso il profumo della casa del Padre, profumo che impregna le loro vesti e ogni loro istante, anche nei momenti più bui, anzi, proprio in quei momenti il profumo si fa richiamo irresistibile al cuore del Padre.

Simeone lo accolse tra le braccia e benedisse Dio

L’immagine di un vecchietto che tiene tra le braccia un neonato è già molto evocativa, ma il testo greco ci stupisce ancora e ancora: Simeone accolse Gesù “nella curva interna del braccio”, non solo in una vicinanza fisica, ma un’accoglienza interiore: Simeone accoglie il Figlio di Dio nel proprio animo, tanto più che, dice il testo “benedisse Dio”. Se vivo dei sentimenti, se il mio cuore è abitato, lo si vede all’esterno, lo si percepisce negli sguardi, negli atteggiamenti, nei sorrisi, e ogni occasione è buona per parlare di chi si ama. Simeone benedice Dio, e lo può fare perché il suo cuore è abitato dalla Presenza del Signore, non ha avuto timore di esporre la sua parte più profonda e ora vive la comunione dell’amore, la gioia del dono.

Certo, sono passati anni e decenni, giorni di tedio, noia, paura, smarrimento, delusione e poi ancora speranza, ripresa, come mille aratri che dissodano e scavano senza pietà quel terreno, quella vita. In quell’abbraccio, Simone viene ripagato di tante attese, e potrebbero essere sue le parole che Paolo scrive ai Filippesi: “risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato” (Fil 2,15-16). Simeone non ha creduto invano: il suo stesso nome significa ascolto ed esaudimento. Simeone ha ascoltato la voce di Dio, l’ha cercata, l’ha desiderata, l’ha invocata, e ora tiene tra le braccia e al centro del suo cuore il Verbo di Dio, carne che salva, Parola che riscatta tutta una vita.

A Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»

Se non cadi dal piedistallo non conoscerai mai il profumo della terra, e non saprai mai chi sei. Solo cadendo potrai risorgere, nascere di nuovo, essere pienamente te stesso. Questo, detto male, è il messaggio di Simeone alla povera Maria, che di traversie ne ha già incontrate diverse. Questa profezia contiene cadute, risurrezioni e un’arma, la spada. Quest’ultima, nell’arte e nella spiritualità, sembra ingoiare tutti gli altri elementi, presenti nella pagina di vangelo che stiamo leggendo, e come sempre succede agli integralismi, si snatura tutto il contenuto.

Simeone parla di risurrezione, di vita, quella Vita che lui ora stringe tra le sue braccia. Le mamme sanno bene come sono le fatiche della gravidanza e i dolori del parto, ma non li assolutizzano, escludendo il sorriso o il pianto del loro bimbo; stringono tra le braccia un figlio, e questo le consola di ogni dolore vissuto. Simeone certamente parla di dolore, il dolore del Figlio e della Madre, il dolore di chiunque crede all’amore, ma non è un soffrire gratis, non è un dolore senza senso: quella spada genera Vita, perché porta chiunque incontra Dio a una nuova nascita, potando e ridimensionando: “Si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere le farfalle… Dicono siano così belle!” (Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry).

Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui

Fisico, intelletto, spirito: tutto è conseguenza della donazione avvenuta al tempio. Se mi dono, non mancheranno le difficoltà, ma tutto in me sarà luce, anche le croci, anche le fatiche. La conclusione di questa pagina del vangelo ha il compito, arduo, di togliere via da noi l’illusione del traguardo: con Dio non sei mai arrivato, ma neanche con te stesso. In epoca medievale si diffonde il concetto di homo viator, per indicare questo continuo cammino. Ci sono sicuramente delle tappe, delle svolte e dei cambiamenti più o meno improvvisi. Dio rimane la strada verso casa, e allo stesso tempo compagno di cammino. Il traguardo? Nelle braccia di Dio, Ma Dio è tra le tue braccia, come lo è stato in quelle di Simeone. Lo vedi che non si arriva mai? E allora… buon cammino!