Brano di riferimento: Mc 9,30-37

Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.

Il cammino ordinario, quotidiano e nascosto è quello più difficile. E’ facile e appagante fare l’album delle foto il giorno del matrimonio, della professione religiosa, dell’ordinazione sacerdotale, quando tutti ti acclamano, ti applaudono, ti dicono che bella che sei, ti mettono al centro. Le foto più vere sono quelle scattate nel buio della fatica, del dolore, dell’incomprensione, della donazione senza ricompense. Gesù attraversa la Galilea, desiderando per sé e per i suoi il nascondimento, il silenzio, l’essere ignorati da tutti. Il seme per germogliare ha bisogno di sparire sottoterra, di buio, di freddo e di gelo, solo così potrà generare vita, non dall’esterno, ma dall’interno.

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».

Infatti: questo silenzio e nascondimento chiesti dal Signore sono funzionali all’insegnamento. Gesù con i suoi non stanno solo spostandosi da un luogo a un altro, ma vivono una lezione difficile, la più difficile. E quando il lavoro è impegnativo, c’è bisogno di concentrazione, di silenzio appunto. La lezione è divisa in tre parti

  1. Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini. Un oggetto, preso, dato, venduto, poi buttato via. Questo verbo dipinge l’identikit del traditore, (e non è solo Giuda a tradire), colui che usa la persona riducendola a un oggetto per soddisfare la propria sete di denaro, di potere, di successo. Tradisce colui che negli occhi del fratello non vede più il riflesso di se stesso, tradisce chi spegne il proprio rispetto per l’altro per i propri scopi personali, giusti o sbagliati che siano. Gesù viene consegnato: in questo verbo è riassunta tutto il dolore del Figlio di Dio, ma anche il dolore di tutta l’umanità, che smarrisce il senso  della vita.
  2. Lo uccideranno. Non è solo andare contro il quinto comandamento. Uccidere significa impedire ogni spiraglio di luce, bloccare definitivamente la speranza, togliere qualsivoglia possibilità. Non dimentichiamo che Gesù sta parlando di se stesso, con una lucidità estrema. Gesù va incontro al tradimento e alla morte con passo deciso, umanamente sconvolto ma allo stesso tempo deciso e determinato, fino all’ultimo rantolo in croce.
  3. Una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà. Può capitare che leggendo il vangelo pensiamo che, ok, Gesù è stato crocifisso e ucciso, però poi è risorto, e vissero felici e contenti. Questa grossolana superficialità è dettata dalla nostra paura di soffermarci sulla sconfitta, sul fallimento, sulla morte, e trasformiamo la vicenda fortemente umana di Gesù in un mito epico, una favoletta, deturpando così il suo volto, smarrendo la ricchezza immensa del suo dono, perdendo irrimediabilmente il profumo del mattino di Pasqua. Contemplare la morte del Signore, sbattere il naso sulla pietra del sepolcro plasmerà il nostro cuore, che non sarà più la tomba, ma l’altare, il tabernacolo di questa vita consegnata, data e ripresa.

Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

Una lezione è difficile quando non la si capisce, quando è talmente fuori dall’esperienza personale da diventare assurda, impossibile, irrazionale. I discepoli erano così sbalorditi che avevano timore, o meglio ancora paura (il testo greco dice proprio fobia, una paura bella spessa). Questa paura dei discepoli è una bella testimonianza di fede: abbiamo paura quando non sappiamo cosa ci può essere dietro l’angolo, abbiamo paura quando ci troviamo davanti a una situazione irrisolvibile, abbiamo paura davanti a un grande dolore. Anche i discepoli scelgono il silenzio, non fanno domande, non c’è nulla da chiedere, ma tutto da vivere, da sperimentare in profondità. Tuttavia nasce tra i discepoli un altro argomento di discussione…

Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande.

Gesù sa attendere il momento giusto per intervenire, e la casa è il luogo di famiglia, dell’intimità, e il luogo dove si parla senza filtri. Lungo la strada Gesù aveva sentito qualche frase, qualche discussione in corso, e se avevano paura di fare domande sulla dura lezione, non si sono risparmiati sul discutere chi fosse il più grande tra loro. Gesù annuncia il dolore inenarrabile del Figlio dell’uomo e i suoi si attaccano nel prendere le misure della loro presunta grandezza. Gesù viene lasciato solo, consegnato da uno ma abbandonato da tutti. Questa casa è la tua, dove Gesù ti incontra, è la casa dove il tuo vecchio io riceve la giusta collocazione, per fare spazio alla vita nuova del vangelo.

Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».

Questo è uno dei versetti più logori del vangelo. Ormai ci siamo anestetizzati, abbiamo sviluppato anticorpi fortissimi, di modo che possiamo leggere le pagine più esigenti del vangelo senza scomodare la nostra vita. Ma le parole del Signore mantengono tutta la loro forza. È un insegnamento nato in seguito a una difficoltà, e Gesù interviene, non per rimproverare ma per incontrare i suoi proprio in quella loro carenza: sono così piccoli che vogliono sapere chi è il più grande!

Gesù non parla di grande o piccolo, ma di primo e ultimo. Per misurare la mia altezza devo stare fermo, immobile, e paragonare la mia altezza a quella degli altri; essere invece primo o ultimo richiede un movimento, gli altri non sono gli antagonisti ma fratelli e compagni di viaggio. Inoltre il Maestro stabilisce che chi arriva ultimo perché si attarda ad aiutare chi fa difficoltà lungo il cammino, ebbene, costui vince tutto!

E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Essere l’ultimo: l’icona di questo cambiamento di vita proposto da Gesù è un bambino, essere indifeso, che nella cultura del tempo non ha alcun valore sociale, è inascoltato, e la sua considerazione è pressoché nulla. Gesù lo pone in mezzo, al centro dell’attenzione, dona a quel bambino tutta la stima e il rispetto, ma non basta: lo abbraccia, lo stringe al suo cuore, fa sentire tutto il suo bene. Questa è la “gara” che il Maestro propone ai suoi alunni. La gara del rispetto, dell’accoglienza, dell’amore, come dirà san Paolo:  “amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda”. (Rm 12,10).

In conclusione: chi accoglie questo bimbo (e quindi ama, stima, rispetta l’ultimo), avrà la capacità di accogliere il mistero del dolore, del disprezzo, della morte. Un dolore che diventa grembo fecondo, portatore di vita, di rinascita, di conversione.