Vittorio Arrigoni, che fino a qualche settimana fa non conoscevo (mea culpa), è un giornalista, cooperatore internazionale e attivista, rapito e ucciso esattamente cinque anni fa, il 15 aprile 2011 nella Striscia di Gaza, dove si era trasferito  per agire contro quella che definiva pulizia etnica dello Stato di Israele nei confronti della popolazione araba palestinese.

Non voglio entrare in ambiti politici e sociologici, non mi compete e non ho la preparazione necessaria. Tuttavia una scintilla si è accesa ieri sera, quando su Facebook mi incontro con questa frase di Vik:

Continueremo a fare delle nostre vite poesie,
fino a quando libertà non verrà declamata
sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi.
Restiamo umani.

Fare poesia significa saper andare oltre, indagare su  quel qualcosa che ancora non si conosce, ma che è in qualche modo già parte di noi. Fare poesia non è scrivere parole e frasi ben costruite, richiamando immagini e coinvolgere chi legge in un’avventura letteraria. O meglio, non è solo quello.

Fare delle nostre vite poesia è vivere ogni momento come l’unico momento degno di essere vissuto fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, senza arrendersi davanti al male, al brutto,  all’ingiusto.

Fare delle nostre vite poesia non è diletto letterario,  ma ha uno scopo molto concreto: fare spazio alla libertà di ogni singolo individuo, quindi di tutti i popoli. Credo che libertà sia il vocabolo più usato ed abusato, dopo cuore-amore. Eppure è di fondamentale importanza che ogni persona possa vivere in pienezza la propria libertà: di pensiero, di istruzione, di salute, di vita.

Le catene spezzate saranno il segno inequivocabile che la nostra vita fatta poesia ha sortito il suo effetto. Non abbiamo vissuto invano, non siamo stati a lamentarci oziosi sull’epidermide del mondo, ma abbiamo colto ogni suo sentire e lo abbiamo fatto nostro. Come? Dando di noi stessi ogni cellula, ogni atomo, senza risparmiarci. dando anche la nostra stessa vita, come ha fatto Vik, che certo voleva vivere.

Io vorrei credere di essere così, ma quanto sarei autentico? Chi di noi si sente di dare la propria vita per gli altri? Pochi, pochissimi e di questi pochissimi, una parte dona la vita inconsapevolmente. Vittorio ci insegna ad applicare la poesia,  intesa come forma di incanto, come resistenza alla bruttura morale e fisica, alle devastazioni psicologiche e materiali. Vivere la poesia da dentro, restando puliti, soldati dei valori etici. Perché un eroe non deve dare necessariamente la vita, ma necessariamente deve difendere i valori in cui crede. E la poesia è l’abito mentale dell’eroe, è la sua casa interiore.

E poi la conclusione, lapidaria: Restiamo umani. Davanti a tutto ciò che il mondo vive, restiamo umani. Non trasformiamoci in iene assetate di sangue, in leoni da tastiera, in serpenti intrisi di veleno mortale, in fiere che della loro vita non ne fanno un bel niente, vegetano e basta. Restiamo umani, con un cuore che sa amare, soffrire, che sa vivere empaticamente con gli altri, tutti gli altri.

La tua vita ha senso solo se ne fai poesia, per te stesso e per chi incontrerai, e se lavori nel non profit, se è questa la tua passione, queste parole di Vik devono diventare il tuo programma di vita, il tuo vessillo, il tuo pungolo quotidiano. Tutto ciò che fai deve essere orientato a spezzare catene, a rendere liberi. E lo puoi fare in diecimila modi: stai sicuro che vivrai appieno la mission della tua organizzazione.

Grazie Vik, grazie per quanto mi hai donato con queste tue parole, ma ancora di più: grazie perché non hai avuto paura di essere soppresso dal male. Sai bene che il male non vincerà, mai.

Ormai sei un amico, Vik! Grazie.