Datevi da fare
Gv 6,24-35

Quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Ansia, la folla che cerca Gesù trasmette ansia. Lo cercano, lo rincorrono, non per se stesso, ma come si rincorre un fenomeno da baraccone; non instaurano con lui una relazione di amicizia, di affetti, né di stima. A loro non interessa chi è ma ciò che fa.

Lo chiamano Rabbì, maestro, ma loro non sono discepoli, non desiderano imparare, non accolgono, non ascoltano. Addirittura la domanda che gli fanno sembra quasi un rimprovero: “Quando sei venuto qua”?? Questo atteggiamento della folla funge da valido esame di coscienza: Chi seguo? Come lo seguo? Perché lo seguo? Lo seguo davvero, o mi illudo? Seguo una persona o un’idea? Sono domande che attendono risposte concrete, e vere, lasciamoci mettere in crisi dal vangelo, dal Signore Gesù.

Gesù rispose loro: «voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Gesù come al solito smaschera le intenzioni dei cuori e tira dritto in rete: voi mi cercate perché avete mangiato, non per il miracolo in se stesso. Ché se il miracolo fosse stato ridare speranza a un disperato, ridare pace a un cuore tormentato, ascoltare una persona sola, accogliere un misero, allora la folla non si sarebbe mossa dalle loro sedie.

Finché Gesù risponde ai miei bisogni, va bene, lo seguo, in qualche maniera cerco di essere presente alle iniziative della mia comunità cristiana… appena mi viene chiesto di cambiare la mia vita, di operare una conversione, di donare del mio, allora inizio a trovare mille scuse, per non impegnarmi, per non vivere un cammino serio, per non credere, per non amare. Madre Teresa di Calcutta dice: “Ama finché fa male”. Se non ti fa male, non stai amando, stai seguendo una filosofia, non la persona di Gesù Cristo.

Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Sappiamo bene che il pane, come qualsiasi altro cibo è destinato a corrompersi. Qui Gesù, dopo aver smascherato la folla e averla messa davanti allo specchio, non la condanna, neppure la giudica, ma consiglia di orientare tutto questo impegno per il cibo che rimane per la vita eterna.

Questo non significa non lavorare, non impegnarsi per portare avanti anche economicamente la propria vita e la propria famiglia, ricordiamoci che Giuseppe e Gesù hanno lavorato tutta la vita, tuttavia il loro centro non era il conto in banca, il gruzzoletto, il loro centro non era ammassare ricchezze e beni, ma vivere pienamente l’amore a tutti i livelli, dalla terra fino al cielo di Dio, e il cielo lo avevano in quelle povere quattro mura, un cielo che si è incarnato per divenire “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15).

Il cibo che rimane per la vita eterna è il bene vissuto, è la carità fattiva, è essere dono per gli altri, è diventare cuore occhi e mani di Dio per chi ci sta accanto. Questo cibo è eterno, incorruttibile, sempre fresco e genuino, e come ogni buon cibo, anche questo porta beneficio a chi lo mangia, trasformando la propria vita, salvandola dal ripiegamento egoistico.

Questo cibo ci viene dato dal Figlio dell’uomo Gesù. Aspetta, non correre subito all’altare e al tabernacolo, rimani pure in soggiorno, o seduto sulla panchina del parco, e prova a guardare con occhi rinnovati tutto l’amore di Dio per te, tutto ciò che Gesù ha pensato per renderti felice e realizzato. Guarda a tutto il bene che hai fatto oggi, la settimana scorsa, nei mesi e negli anni passati. Poi entra in te stesso e guarda l’infinito desiderio di bene che sperimenti. Ecco, è questo il cibo che dura per la vita eterna, e che Gesù ti dà. Gustalo, cibatene, e fanne dono!

Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Benedetta folla! Sei così concentrata sul fare prodigi, sull’avere più potere, che non riesci neppure ad ascoltare cosa ti dice colui che tu stessa chiami Maestro. Maestro, ci insegni a moltiplicare i pani? Ci fai un corso (breve eh) su come si fanno i miracoli? La folla non chiede: aiutaci a essere amore, aiutaci a conoscerti, facci conoscere l’amore di Dio per noi… la folla neppure si fa carico della stanchezza di Gesù, tutta presa com’è da questa sete di potere, perché di questo si tratta: avere potere, esercitare cose fuori dalla normale portata.

Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Credere implica un’adesione del cuore, della vita. Io posso seguire un’ideologia, una corrente di pensiero, e la mia vita viaggia su binari paralleli, senza che essa debba cambiare minimamente. Credere e seguire Gesù invece necessita uno stravolgimento radicale, totale. Non è solo dire, come nella formula dell’atto di fede: “credo fermamente tutto quello che tu hai rivelato e la santa Chiesa ci propone a credere”: questo sarebbe molto riduttivo, un’adesione solo intellettuale, nozionistica. Credere invece è adesione di tutto me stesso, del mio cuore (affetti, desideri, sensibilità) della mia mente (modo di pensare e quindi di agire, di relazionarmi, di intervenire in un contesto), del mio modo di vivere: credere è lasciarmi plasmare dal vangelo, dalla bella notizia che Dio è vicino, che Dio è amore.

Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”».La folla non si schioda. Se si mette in moto per vedere segni e prodigi, non si lascia però condurre da Gesù. Vogliono vedere un segno (com’è lampante qui che neanche moltiplicare pani e pesci è sufficiente!) La folla intende una fede razionale, fatta di regole e precetti, che non intacca minimamente il loro vissuto. Non è disposta a credere senza un segno, senza una prova del 9.

La folla è così entusiasta della moltiplicazione dei pani e dei pesci che tira fuori dal cilindro la manna: per loro il segno, l’opera, il vedere e il credere sono esclusivamente tangibili, riconducibili a una visione egoistica. Se ci pensiamo cosa offre la folla? Nulla, si pone solo come soggetto ricevente, passivo, parassita. Non c’è dono, non c’è condivisione, ma solo fruizione di un servizio. Ebbene, questo non è vangelo.

È il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Gesù apre la porta di casa, presentando il Padre. È papà che provvede il necessario alla famiglia, che compie fatiche e sacrifici per la gioia dei suoi cari, è lui che dopo una giornata di lavoro massacrante ha la forza di tornare a casa e invece di pensare a se stesso e alla sua stanchezza, gioca e ride coi suoi figlioletti.

Il Padre dona il pane e rimane nascosto, in penombra, come i padri di qualche decennio fa, dediti al lavoro e alla famiglia, scarni di parole, ma con gesti concreti di operosità e affetto. Gesù conosce bene il Padre, lo ama, e desidera che anche noi lo conosciamo e lo amiamo, non per il pane, non per i miracoli, ma per ciò che esso è: Papà.

Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Il dialogo con la folla continua, ma senza alcun miglioramento della situazione. La folla tiene a due mani il pane del fornaio, quello che non dura, e non accoglie il pane vero, quello che ha la capacità di trasformare i cuori e renderli luminosi, ardenti, santuari della presenza di Dio. Dacci sempre di questo pane: è la ricerca del gratis, o quantomeno dello sconto, del bonus, per acciuffare qualcosa e metterselo in tasca, senza fatica e senza coinvolgimento. Tu mi dai, io ricevo; non ringrazio, non condivido, non dono. Il cuore diventa il luogo dell’egoismo più sfrenato, e il mondo un labirinto di specchi dove vedo solo me stesso, il mio ego abnorme che fagocita tutto, cose, persone, situazioni.

Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». No, non pensare subito all’Eucaristia, alla Messa. Rimani nella casa di papà, cerca di cogliere i dettagli di una famiglia che ti accoglie per quello che sei, di un Padre che ti offre tutto il suo amore incondizionato, cogli questo affetto che vibra per te. Se hai chi ami davanti a te, non andare in cerca degli album di fotografie, ma abbraccia la persona in carne ed ossa, quella carne e quelle ossa che il Figlio, l’amato ha assunto e donato fino alle estreme conseguenze.

È Lui il pane vero, il pane che si conserva per la vita eterna, il pane della vita. È Lui il dono del Padre, che rende familiari dei perfetti sconosciuti, e consanguinei popoli lontanissimi. In questa famiglia non esiste straniero, non esiste il forestiero. In questa famiglia tutti troviamo una sedia e una tavola per essere dono reciproco. E se non sei a tuo agio, lasciati abbracciare dal Padre, lasciati prendere dal vortice del suo amore, un vortice che risana e consola.

L’Eucaristia diventa il punto di arrivo e di ripartenza di questo amore. Gesù diventa pane non per essere rinchiuso in un armadietto, ma per diventare il nutrimento dell’amore che vivi ogni giorno, per divenire il fulcro della tua vita. È Lui il perché di ogni tua scelta? Ti do una bella notizia: Dio sa attendere, e accompagna i tuoi passi, accogliendo con un sorriso malcelato ogni tuo progresso. Passo dopo passo ti avvicini a casa, la casa dove il pane è sempre fresco e fragrante. Solo qui sarà saziata la tua fame e la tua sete.