Pagina di riferimento: Gv 13,31-35

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.

Essere traditi (a qualsiasi livello) è una delle esperienze più dolorose che un essere umano può vivere. In quella situazione drammatica si ha bisogno di trovare un luogo sicuro, una terraferma dove sentirsi sostenuti, capiti, un luogo dove lasciar sanguinare il cuore ed essere se stessi. Il luogo del tradimento è il cenacolo, dove Gesù con i suoi sta celebrando la Pasqua ebraica, là dove Lui si è dato totalmente: la crocifissione ha confermato nel corpo di carne ciò che già era avvenuto nel cenacolo. Proprio davanti a quel pane spezzato e a quel vino versato, immagine inequivocabile di donazione e di fraternità, Giuda compie il suo gesto di tradimento, ed esce, lascia il luogo della donazione e dell’amore per seguire il piano delle tenebre, dell’odio, della morte.

Gesù non esce. Rimane là, pur cercando un altro luogo che potesse accoglierlo: il cuore del Padre. In poche righe viene ripetuto ben cinque volte lo stesso verbo. Glorificare significa conoscere, riconoscere, accogliere, amare, volere bene. Dopo il tradimento Gesù trova accoglienza nell’amore del Padre che lo conosce, che lo sostiene in questa buia notte, il Padre che rimane vicino anche se nascosto, presente anche se nella morte del Figlio. Al tradimento di Giuda, Gesù risponde con l’amore del Padre. A una relazione spezzata Gesù risponde rinsaldando la sua relazione filiale col Padre, fonte di ogni amore, e Lui stesso Amore per eccellenza. Ecco il segreto di Gesù, che non lo esime certo dalla sofferenza, ma pur soffrendo e morendo rimane unito indissolubilmente a Dio, anche quando il Suo volto è oscurato dalla nube densa del dolore innocente e ingiusto.

La relazione tra il Padre e il Figlio permette di compiere fino alle estreme conseguenze l’incarnazione; questa relazione permette a Dio di essere Dio-con-noi, non estraneo, ma vicino e presente. Come in ogni relazione, anche tra il Padre e il Figlio il centro è costituito dalla donazione reciproca: ognuno dona tutto se stesso, espropriandosi totalmente e divenendo il tutto dell’altro. Senza dono non c’è amore, senza dono l’altra persona non è accolta e amata, ma ridotta a oggetto, a proprio uso e consumo.

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.

Come ogni segreto viene confidato sottovoce, custodito dalla discrezione, anche il segreto di Gesù viene consegnato ai suoi amici in una cover speciale che lo protegga da graffi e cadute, da incidenti di percorso. Questa custodia è nuova, ed è così forte da essere un comandamento: non dice il perché dell’amore (col rischio di scadere nel patetico e nell’ovvio), ma comanda il come, “amatevi come io ho amato voi”. Se nella relazione tra Padre e Figlio la parola chiave è la conoscenza (glorificazione), per noi comuni mortali c’è bisogno di un altro tipo di esperienza, perché: “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,27).

La parola chiave per noi è il come: “amatevi come io ho amato voi”. Conosciamo il Padre attraverso l’amore del Figlio; sperimentiamo l’abbraccio del Padre attraverso la consegna totale del Figlio che spalanca le sue braccia e traduce, con un linguaggio umano, fisico, tangibile ciò che appartiene all’incomunicabile. Ancora una volta vince l’incarnazione, Dio-con-noi!

Amare come Gesù: ok, passo e chiudo! È questa la prima reazione davanti a questo come così alto, vorrei dire irraggiungibile. Come potrà essere possibile amare come Dio? Senza riserve, senza ma, senza escludere nessuno, ma anzi accogliendo tutto (situazioni) e tutti (persone)? Abbiamo detto che il segreto di Gesù è l’amore, e proprio perché è messo tra le mani fragili della nostra debole umanità, ha bisogno di una cover indistruttibile, un comando: Ama! Questo comando è l’unica via che l’amore di Dio ha per poter essere vissuto dall’uomo, è l’unico modo che ci permette di partecipare alla relazione tra Padre e Figlio, e questa relazione ci genera, ci ri-genera come figli, amati, desiderati, voluti.

La constatazione della propria fragilità non toglie nulla all’amore, anzi: lo impreziosisce, lo rende ancora più bello, come quella mamma povera che fa di tutto per nutrire e vestire il proprio figlioletto e dargli un aspetto il più dignitoso possibile. Il nostro, effettivamente, è un povero amore, ma è lo stesso amore di Dio che ci viene donato, e ci viene comandato di riceverlo e di donarlo, fino all’ultimo istante.

Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Dopo la relazione tra Padre e Figlio, dopo il come e il comandamento che rende possibile l’amore anche a noi, ora c’è la prova del 9 (o se preferisci la cartina al tornasole) di questo amore: stiamo imparando da Gesù (e quindi siamo suoi discepoli), se abbiamo amore gli uni per gli altri. Interessante il fatto che Gesù usi il verbo avere: l’amore per essere tale deve essere toccabile come una cosa, concreto, solido, tangibile come un regalo (ecco il dono, necessario, fondamentale).

Non credente, credente, praticante, non praticante, lontano, vicino, convertito, fedele, infedele, peccatore… Questi e altri termini simili sono come delle mani che brancolano nel buio cercando ma non trovando un appiglio: l’amore che ci viene comandato non è l’adesione a un gruppo, a una religione o filosofia. Gesù non ci comanda l’appartenenza a una religione come forma esterna, ma di essere come Lui amore vissuto, incarnato nel quotidiano, nelle mille vicissitudini che compongono i nostri giorni. Solo l’amore ci renderà riconoscibili, come il Padre e il Figlio si conoscono, così noi saremo conosciuti da chi avvicineremo, e porteremo anche a loro il profumo buono dell’amore, che rende possibile l’impossibile, e tangibile l’immensità di Dio.